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Immagine del redattoreSerena

La verissima storia di Ebenezer Scrooge

Tanto per cominciare, Marley era morto. Marley che ora se ne stava stecchito sotto tumuli di terra gelata, con le unghie degli alluci che si erano staccate per il freddo o per l'azione pigra dei vermi.

“Caro Marley” gli diceva Ebenezer Scrooge, in piedi allampanato davanti alla lapide “del freddo importa solo a noi due: e tu sei morto, ed io sono vecchio”

Ma Ebenezer sapeva benissimo che non era la vecchiaia a fargli sentire il freddo ma la solitudine. Aveva visto vecchi, nelle vie stroboscopiche di colori, che pareva non avessero la pelle: quelli giravano con la lunga cappa nera non appuntata sul petto, i guanti sfilati, il berretto calato: lui invece, per quanto si ostinasse a strofinare la giacca logora sulle spalle puntute, non poteva trovar calore neppure davanti ad un camino.



Il vecchio si era calato con un cigolio della schiena a spazzare con le dita la fragilissima identità del morto racchiusa solamente nelle cubitali lettere nere della lapide. La neve era caduta con un tonfo secco sul manto bianco ed ora Ebenezer leggeva bene Marley, l'ultima persona che gli fosse rimasta per parlare. E, a parlare con un morto- che certo non ti risponde-, ci vuole una bella dose di fantasia. Fortunatamente, a Scrooge non era mai mancata. La tomba di Marley se ne stava sonnacchiosa davanti a quella che un tempo ne era stata la casa. Sorgeva sotto un albero secco carico di neve, dove anni prima, quando era primavera, Marley soleva star seduto sotto il manto di erba primula. Ora quell'erba se l'era preso e Scrooge era infine rimasto solo, d'una solitudine perfetta. Ebenezer si avvicinò alla casa chiusa e disabitata da anni: bastava armeggiare un poco che la porta cigolava aprendosi, rivelando gli ambienti ampi ed ora caduti nel buio. La scala, non più percorsa, se ne saliva con i suoi soliti vecchi gradini verso l'alto, dove erano le camere da letto, e si mostrava all'appena entrato visitatore.

Ora, scendendo dall'alto, non c'era più l'amico fraterno ad aprirgli le braccia e a gridargli “Ebenezer! Quanto è bello il Natale, se siamo insieme!” ma un ricordo senza voce, quello del demone doloroso del Natale passato. Ed il Natale passato aveva il viso di Marley, ed aveva il calore di quella dimora addobbata a festa, aveva le luci tenui di un albero fatto insieme, ed era doloroso perché aveva smesso di essere e non c'era verso di farlo tornare ché nessuno, a meno che non si venda l'anima al diavolo, trova modo di uscire dalla morte. Ebenezer si era seduto su una vecchia sedia a dondolo, in una sala al pian terreno, pregando ancora di veder ricomparire il vecchio Marley, con quel viso messo a festa dal largo sorriso.

“Marley” si lamentava Ebenezer, abbandonato in quella grande casa scura “Ricordi di quando, invitati dai tuoi modi e dal tuo affetto, la tavola si riempiva di atmosfera di festa? Di quante persone bussassero alla tua porta?” Ricordava dunque dei vassoi passati da un lato all'altro della tavola, di mano in mano, dei sorrisi che accompagnavano la cena, ma nessuno, a quell'eco dolorosa, rispose. Il legno cigolò come se qualcuno scendesse le scale ma nessuno, sulla soglia della camera, comparve. Ebenezer, facendo il conto degli anni che avrebbe avuto Marley se fosse stato vivo, mosse le dita nell'aria deserta, ad accertarsi se qualcosa di quel calore festivo degli anni passati fosse rimasto impigliato nelle mura. Niente era rimasto, se non qualche crepa d'umido. Ebenezer iniziò a dondolare, facendo leva sulla schiena; rimase cinque minuti immerso in quel moto d'andirivieni ipnotico: poi si levò, andò alla finestra. La luce bianca e immobile dell'esterno non l'ingannava: sulla tomba di Marley, una tomba autentica, da vero morto, stava Marley stesso, ma un Marley autentico, che pareva vivo, e si levava da lui le erbacce innevate che gli erano cresciute intorno. Ebenezer aspettò che l'ombra si accorgesse di lui, di esser guardata: e l'ombra dell'amico lo vide, gli sorrise come un tempo, alzò la mano a salutarlo. Era scavato, Marley, ma non c'erano dubbi che fosse vivo: era vivo quel passo d'uomo, era vivo il modo in cui più in fretta l'amico si era indirizzato verso di lui. Ebenezer, pieno d'una contentezza da tempo non provata, si sedette sulla sedia, e l'attese. Marley non ebbe bisogno che qualcuno gli aprisse la porta in casa propria e comparve qualche minuto dopo davanti ad Ebenezer.

Ed Ebenezer ebbe un moto, e volle abbracciarlo, e si spinse con le gambe per afferrargli le braccia e dirgli “Dove sei stato, Marley” e scuoterlo e ancora “Non andar più via”ma il viso del socio lo rese di pietra. Marley, che era entrato nella stanza, lo guardava con una tenerezza densa e viscosa, ma una tenerezza che l'avvelenava e che rovinava tutto. Gli brillava negli occhi quasi un fuoco d'impotenza, che gli faceva uno sguardo ambiguo. Non sorrideva e quel sorriso, quando rapido nel secondo compariva per poi dileguarsi, faceva una luce sinistra, artificiale.

Ebenezer rimase con le braccia sospese. Non c'è nessuno che torni dalla morte. Marley non poteva esser tornato: e lui, Ebenezer, era ancora solo.

“Non sai, Scrooge, non sai quanto vorrei poter far qualcosa” disse l'apparizione che quindi, con buona probabilità, non c'era.

Il signor Scrooge pensò a quanto possa essere di vetro una mancanza. A quanto, invece, possa divenire di impenetrabile ferro la solitudine.

“ Sei così solo che parli con i morti” gli disse Marley.

Sono così solo che non c'è nessuno che mi parli.

“Che mi dici di Fred? Sarà felice di averti a Natale”

Nessuno, concluse Scrooge, era felice di averlo con sé. Nessuno voleva per lui incartare un dono, neppure il nipote Fred.

Fu quando cedette all'impulso tutto umano della comunicazione, quando cercò infine un abbraccio dall'unico che l'avesse mai abbracciato, che Marley disparve a contatto con le sue dita. Nessuno torna dalla morte. Nessuno esiste quando poi muore. Rimase immobile al centro d'una stanza vuota, così vuota che era scomparso persino il dondolo. Non c'era niente, se non delle mura, una tomba all'esterno corteggiata dalla neve. Brillavano sparendo anche i ricordi, in una nebbia poco lucida.

Scrooge volle dunque tentare l'ultima, ché è proprio dei disperati, sul finire, intraprendere strade che da sempre si è giurato di non voler intraprendere. Scrooge, affamato e morto di freddo, con la gola strozzata da quell'abbraccio negato dall'unico amico che mai avesse avuto, percorse la strada che intercorreva, attraverso il bosco e quel poco di città, dalla vecchia casa di Marley all'appartamento al secondo piano di Fred, il panciuto che Scrooge aveva per nipote.

Quando arrivò, canticchiava apparecchiando: dava di sé l'immagine d'un uomo felice. Ma, questo Scrooge lo dimenticava, un uomo felice non è per forza un uomo buono.

“Zio Scrooge” diceva Fred, piantandogli in viso due occhi felidi “Non ti aspettavamo”

Ebenezer, nel corso del tempo, aveva perso l'uso sciolto della parola: quel che avrebbe voluto dire mancava di trovar forma e si covava, come una matassa nera, all'altezza dello stomaco. Avrebbe voluto dire: so che in passato ho sbagliato, ma ora una famiglia mi manca, e vorrei tanto stare con voi. Non disse niente, alzò le spalle. Il silenzio, da abitudine comoda che era stata, si era trasformata in una costrizione senza alternative.

“Vedi, zio- continuava Fred, non interrompendo l'opera certosina dell'allestimento della tavola delle feste e non accorgendosi degli occhi pieni di supplica dell'uomo appena venuto “non credo neppure che le tue nipoti si ricordino di te”

Non so dove andare, avrebbe voluto dire Scrooge, che parlava con i morti ma che aveva grande difficoltà a farlo con i vivi. Nel corso degli anni, Ebenezer aveva scelto la solitudine senza accorgersene. Ed ora, che se n'accorgeva, non c'era più nessuno che volesse tirarlo fuori. La solitudine accade, si sceglie solo in parte. Un vecchio litigio familiare, una bancarotta, qualche scelte sbagliata: la società ti risputa fuori dal tessuto in cui prima ti ha costretto. E non c'è verso di rientrare.

“Capito, zio? Vogliamo fare l'anno prossimo?” continuava a dire Fred, accompagnandolo alla porta. E gli disse auguri di Buon Natale mentre, nel giro di poco, Scrooge era di nuovo solo sul pianerottolo.



Questo era dunque il Natale che gli rimaneva: non c'era niente da vedere, nessun posto in cui andare. Girò tra la stazione ed il parco cittadino per qualche ora: le vie andavano svuotandosi, man mano che la gente si riuniva attorno alla tavola. Prima c'era ancora una folla brulicante, l'assalto febbrile alle panetterie e ai laboratori di pasticcerie, poi qualche monello si divertiva ancora a tuffare i guanti nella neve, richiamato dall'urlo della madre. Poi, pian piano, non rimase nessuno. Anche i treni smisero di arrivare e il cartellone degli arrivi rimase vuoto. Ebenezer era solo: riusciva ad indovinare il tintinnio delle posate, il fruscio della carta da regalo. Il cuore gelava, un lago profondissimo d'odio e rabbia. Questo provava Scrooge, mentre lento comprendeva che per lui non ci sarebbe stato nessun Natale futuro, rabbia. Una rabbia cieca e furente, la rabbia dell'esser rimasto solo, la rabbia del non esser stato colto, la rabbia di non aver trovato nessuna mano che l'aiutasse. Non c'è più niente da vedere, diceva Scrooge. Pensava a quanto tempo ci avrebbero messo, l'indomani mattina, prima di ritrovarlo morto. Forse l'avrebbe trovato uno sconosciuto, venuto col primo treno. Guarda che mi doveva capitare, avrebbe pensato lo sconosciuto incappando in quel morto sulla panchina della stazione, proprio a me, e proprio durante le feste, avrebbe detto molto seccato.


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