Il mio corpo è della consistenza dell'aria, la realtà continua ad avere il peso grave delle cose. Ho le mani di cera, quel che mi circonda è d'una lega pesante che deforma la mia materia, se solo la tocco.
Ma non posso non toccare le cose,mi dico, mentre mi alzo a spegnere la sveglia impostata sul cellulare. Mi trascino esausta lungo il corridoio, bevo un caffè che si mescola alla massa informe e grigia dei miei pensieri. Ripeto stancamente gli stessi gesti: metto la mia felpa preferita oggi, quella larga e rossa cupa, un jeans che comincia a starmi stretto sui fianchi, mi do' la solita occhiata distratta allo specchio. No, non credo davvero di farcela: privarmi della mia consistenza mi ha spezzato i nervi, mi ha tolto una forma, finisco per piegarmi col vento. Tutto mi fa male, mi strazia in maniera unica: il dolore esaurisce le mie energie. Due solchi viola mi abbracciano gli occhi, sembra quasi che io abbia uno sguardo, almeno.
S'è fatto Marzo e l'aria è buona, mi aspetto di veder fiorire gli alberi, questi alberi pure così spenti ho fiducia metteranno quei piccoli fiorellini rosa che si vedono nelle città come questa. Passo davanti la mia vecchia scuola, la guardo come m'appartenesse: è il primo subbuglio della giornata, il primo dolore. Un liquido celeste amarognolo mi si riversa nel petto, lo sento che cola lungo lo stomaco: nostalgia. E' passato quasi un anno dall'ultima volta che sono uscita da questo cancello con sulle spalle la cartella leggera di Giugno e mi sembra sia ieri.
Affretto il passo, il mio treno partirà tra qualche minuto, la stazione è poco distante. L'università, questo è certo, non mi vorrà perdonare questo mio attardarmi nei ricordi. Affretto il passo ancora, quasi corro. La mia felpa preferita si inumidisce sulla schiena. Faceva tanto caldo anche prima?
Il treno mi apre le porte davanti, una donnona alta il mio doppio mi urta leggermente nel vagone: mi si stringe la gola, la testa è già un po' più pesante: vorrei dare forma a quel che penso ma i miei pensieri si infrangono appena tento di dar loro un ordinamento, come gocce su una superficie.
Non capisco me, come posso capire quello che mi circonda?
Venti minuti di treno non sono abbastanza per radunare un poco di energie, quel tanto di forze che mi dovrebbero far mettere assieme un corpo da mettere tra gli altri, nella folla, per sedermi e seguire le lezioni, per prendere la penna e prendere appunti, per sorridere a qualcosa, per dire buongiorno alla ragazza che ho conosciuto l'altro giorno e di cui non ricordo ancora il nome.
Esco dalla metro, le persone sfumano fino a diventare una moltitudine colorata, mi travolgono ma sembrano passarmi attraverso. O sono io che passo attraverso loro?
Vengo meno a me stessa, recedo in un anfratto lontano nella mia pancia, mi ranninchio al buio. Mi faccio ancora più piccina tanto più le persone attorno a me aumentano, pure se queste sono visi amici, sento un'eco lontana: probabilmente mi stanno parlando, non riesco a cogliere quel che dicono. Sentirsi assente. Vuol dire che sento di non sentire.
Vorrei poter stare con voi, davvero, ma non riesco. Tiratemi giù.
Si aggiunge a noi, ad un punto, un certo Riccardo; i suoi capelli li avverto come uno schiaffo sulla guancia, mi sembra di rinsavire; nerissimi, così neri che sembrano riflettere la luce. Mentre mi saluta il mio nome gli sfiora le labbra, mi appoggia due dita sul braccio mentre mi chiede come sto, e sotto il suo tocco finalmente divento carne viva, pulsante. La vetta dura poco: subito egli s'accommiata, grattandosi la barbetta sotto il mento, allontanandosi dal gruppo.
Io, poco a poco, torno a sparire. Rimango come un fantasma vago tra gli altri, un pensiero mi afferra i fianchi e mi trascina. Mi perdo per il resto della giornata.
Per un introverso una gran folla può voler dire correre una maratona: la stanchezza è la stessa, la debolezza delle gambe, la pesantezza delle spalle.
Non è strano o bizzarro o triste voler starsene di per sé stessi, mi dico, a fine giornata, coricandomi a letto. Spengo la luce.
Mi sento tremendamente bene.
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