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Immagine del redattoreSerena

Chi ha paura del 4 Maggio?

Paura, ma di che?

Sono le 20 e 30 quando Conte annuncia la fatidica fase due. L'annuncia con non poca delusione di chi l'ascolta ma, ancora una volta, non mi sentirete parlare di politica. Ai posteri l'ardua sentenza sulla bontà delle sue decisioni: ai posteri, non a me, né a voi.

Qualcuno si agita sul divano, altri cacciano un pochino più in fondo allo stomaco una sorta di eco di paura e fanno finta di niente. Conte dice 4 maggio: nessun grande party, come lo stesso sottolinea, ma è un piccolissimo passo in avanti. Il peggio sta per passare, le cose andranno meglio: e allora cos'è quell'inquietudine sottile che ci ha stretto la gola? Di cosa abbiamo così paura?

Verrebbe da dire: insomma, siamo nel pieno di un'epidemia mondiale, una crisi economica durissima- mettiamoci in mezzo per i più superstiziosi anche l'anno bisestile -di cosa non dobbiamo aver paura?

E' qualcosa di diverso, tuttavia, a cui probabilmente diamo parole con fatica: temiamo una cosa ancestrale, radicata profondamente nella nostra natura umana: il futuro. E lo temiamo normalmente, l'abbiamo sempre temuto anche nel pieno del nostro normale tran-tran super organizzato, figurarsi se non c'è da temerlo ora che neppure questo bellimbusto presidente che da mezz'ora parla dalla tv riesce a dargli almeno un volto.


Il Mondo Fuori

La verità è che un peggioramento delle condizioni psicologiche serio a livello clinico l'ha avuto un 30% della popolazione: una stima alta, per carità, ma questo vuol dire che il restante 70% dopo un primo momento di vuoto s'è rimboccato le maniche ed è riuscito a crearsi nuovi spazi. ( per amore di chiarezza: tralascerò la questione economica. Per delicatezza e rispetto a chi in questo momento fa fatica ad andare avanti, eviterò di parlare di economia, come prima di politica. Bisognerebbe avere sempre l'onestà intellettuale di ammettere le proprie lacune in alcuni ambiti e di conseguenza tacere prima di informarsi.)

Gli psicologi dicono che per crearsi un'abitudine ci vogliono ventuno giorni e noi di tempo ne abbiamo avuto anche di più. Il gioco ormai era fatto: nelle mura sicure delle nostre case, continuava una vita attenuata, tiepida, un po' sbiadita, ma continuava per molti sicura. E ora, nel bel mezzo della giostra, ci viene detto di scendere. Che bisogna ricominciare, più o meno, come prima. Eccola qui, subentra la paura. Quello che proviamo, ci viene spiegato, è un sentimento ambivalente: attendevamo di poter tornare nelle strade ma senza accorgercene ora lo temiamo. In un processo normale questi sentimenti si equivarrebbero: un po' come quando ci innamoriamo, sappiamo dei difetti e dei pregi del nostro partner ma, infondo, ci va bene così.

Questa ambivalenza adesso non vale più perchè, semplicemente, la nostra paura ha una forma nuova: quella dell'altro, dell'amico, del parente, del nonno. E' una caccia alle streghe.

La paura vince sull'attesa perchè, dopo tutto, non sappiamo che aspettarci. Che faremo, oltre a evitare l'altro? Vorremmo tornare alla normalità ma sappiamo che il normale non c'è più. A cosa dobbiamo veramente fare ritorno? A niente: si torna in qualcosa di consueto, e qui consueto ha fatto la fine di tranquillo.

Facciamo fatica ad accettare, come sempre, l'idea del nuovo, dimentichi che è nel foglio bianco che spesso si ricomincia a riscrivere una storia migliore.




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