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Storia di amore e distacco

Aggiornamento: 13 apr 2020

Lasciate che vi racconti una storia paradossale: non troverete infatti abbandono che sia più lancinante di questo e che mi costringe ora in uno spazio vuoto, abissale, inesistente. Una camera, potrei dirvi, se non fosse che quel che vi dico è molto più di quanto conosciate.

Era una tiepida sera di Luglio, col cielo che scuro respirava lento sull'alito del mare, e io, signori giudici, abbandonai la vita. Questa vostra signora confusionaria, vestita di stracci rappezzati e colorati, i capelli raccolti alla bell' e meglio che mi aveva fin allora sempre sorriso col suo ghigno vispo, io l'abbandonai o lei, d'un colpo, mi lasciò la mano. Non so dirvelo ma prima ancora che me rendessi conto, io l'avevo perduta di vista. Non che questo voglia dire che io sia morta: per questa storia ci vuole più fantasia.

Persi dell'estate ogni colore, e quella pure brillava saccente nella mia cittadina di mare; io non seppi più vederla. Saliva dalla spiaggia fino alla mia finestra semi aperta l'odore appiccicoso di salsedine assieme ad un vento lieve, sporco di sabbia ed io, pur vedendolo, io pure che l'avevo sempre amato, lo ignorai. Meriggiava d'Agosto e lo sciabordio delle onde mi stava in gola, come un pianto antico. Non batteva più il sole nei miei pensieri e s'era fatto buio. Le cose non furono più definite e poi non furono più. E in quel mio stesso angolo, rinchiusa in una fortezza inesistente ma ferrata, io cercavo di ricordarmi di quella bella donna che mi aveva lasciato, o che avevo lasciato io crudelmente, e di cui ora sentivo la mancanza. E la supplicai di tornare, come supplica l'amante infedele il suo amore tradito, e piansi per lei, e poi non dormii, e guardai le stelle: di nuovo però le trascesi con i miei occhi furenti e, senza cogliere la bellezza del loro tenue luccichio, pensai di nuovo che questa vita non ha un che per cui dovessi viverla. E la tradii di nuovo, colpendo me stessa, sprofondandomi ancor più lontana da lei. Feci allora tre passi ancora più dietro.

Il buio s'era fatto quasi assoluto. Non seppi dov'ero, ma era lontano: lontano dell'isola più remota che possiate recarvi a mente.

Nel posto in cui mi ritrovai non arrivava voce alcuna, se non l'eco di alcune grida di supplica: è mia madre quella che urla? Deve avermi perso: la strada per giungere qui non so dirvela, è meno d'un sentiero tra l'erbaccia, una striscia di fango e terra lungo la più irta montagna. Quell'eco materno mi ricorda l'infanzia; Dei pranzi tra i tralici d'uva nella mia terra natale, l'odore del mosto, e io che corro lontana su per le vigne, e mia madre che chiama, col pranzo in tavola.

S'è fatto quasi autunno ed io invoco la Morte, adesso sì, la Morte, fraterna, solidale, liberatoria ed invece arriva l'Amore. E schiocca la tremula freccia d'un eros confuso in una nebbia sottile: spira il vento su questa rena scura e la candela che ci rischiara le cena pare doversi spegnere; camminiamo a piedi nudi sulla sabbia, stanca dall'estate, stanca almeno quanto me. Gli ombrelloni sono chiusi, come primule appassite e alcuni trovano in terra il loro riposo; e' finita la stagione del mare;

Egli è un uomo bruno e porta negli occhi i segni di quell'amore che io rifiuto, ama la vita in maniera stupida e infantile, ed è attaccato ad essa come un marmocchio alle gonnelle della madre.

Ho dimenticato il volto della vostra Madama, signora giuria ed allora già ne avevo scordato i tratti del volto, il tramonto nello sguardo, i colli nelle mani, le nascite nelle spalle, e i dolori e le gioie nella pelle sottile. Cos'era la vita?

Giunse Ottobre e, scricchiolando, la monotonia della città romana riprese. Neppure le dita tiepide d'autunno mi sfiorarono: attonita, muta, passeggiavo lungo Viale Regina Maria Elena. Sentivo palpitare la vita negli altri e pure non sentivo la mia. Dov'è che vanno tutti? E questi pure, che corrono, che corrono in questo maledetto moto incessante, che fanno?

Vivono semplicemente.

E io, che faccio? Io anche vivo?

E nel rischio che io davvero fossi viva, tentai il suicidio. Tenuta nei lacci delle mie domande, domande crudeli a cui la Matrigna m'aveva ridotto e costretto, mi librai nell'aria: atto supremo di libertà e ribellione, d'amore, di...vita?

Ci vuol meno di un secondo a saltare da una finestra se davvero lo si vuole, giudici, non vi scandalizzate; è' dolce il volo: non v' atterrisce l'asfalto che vi attende perché per guardarlo il tempo non vi sarà abbastanza, ma di contro vi abbraccia l'invisibile orizzonte, vi culla e..

Non morì. L'Amore mi giurò d'esser vero e io lasciai che si appropriasse del mio involucro vuoto, del mio corpo senza vita, abbandonato, lontano, stanco. I segni delle mie pene iniziavano infatti ad esser tangibili: la mia carnagione, da sempre rosea, s'era smorta, pareva vetro della più cattiva qualità e un tremore incessante mi aveva rapito le mani. Ma, in qualche modo, di questo gioivo: che il mio corpo soffrisse i patimenti dell'anima voleva pur dire che l'anima c'era.

Un terapista cercò a due mani di ritrovarmela. E' uno spazio immenso una persona e le cose si perdono facilmente: figurarsi se si perde una cosa flebile come la vita. Mi sforzai di sollevarmi sulle gambe e guardare d'intorno: dov'era potuta fuggire? E perché avevo smesso d'amarla?

Mi innamorai d'amore e nel riflesso dei suoi occhi bruni, dopo tanto tempo, ne intravidi un riflesso. Era ancora bella, sapete, seppur fosse invecchiate e anch'essa, come me, aveva un'aria stanca: eppure, rideva ancora, nonostante il viso piegato come una carta straccia.

Ma quel che ho da dirvi non finisce bene: questa non è una storia d'amore da vissero felici e contenti, almeno non ancora. Io e la Vita non ci rincontrammo. L'avevo mortalmente ferita con i miei pensieri e rifiutò di tornare a baciarmi le labbra.

L'amore giurò d'esser stanco e in una stazione d'un metrò confessò d'amar la vita e non me. Quel poco d'anima di cui ero consapevole mi sgorgò allora dagli occhi- piansi- ma Quello non si voltò: passò oltre i tornelli e si diresse fuori all'aria di Novembre morto, mentre io mi imprimevo a fuoco le sue spalle nelle retine. L'avevo amato e l'avevo perduto.

Ed eccomi qui. Avete ascoltato la mia voce come quella d'una favola antica-ma la mia è una voce vera che sale dal vuoto. Io canto la fine: dalla fine di quest'amore non si può ricominciare. La vita è una signora spietata che non sa perdonare e vi dico solo: amatela;

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