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Notti Romane, capitolo secondo

Liliana Rinaldi



 

Liliana Rinaldi aveva da qualche giorno compiuto i suoi ventidue anni, e lo aveva fatto in silenzio, senza festeggiamenti, con a malapena una torta e una candelina accesa che le aveva messo insieme la madre. Si stava lasciando rapidamente Villa Borghese alle spalle: il cielo si era fatto denso e non si muoveva più una foglia; avrebbe piovuto da lì a breve e non aveva con sé neppure l'ombrello.

Immaginò Marco Vitali avviarsi da solo nel mezzo del parco: ci sarebbe stata una festa quella sera ed era lì che andava, attorniato dallo stuolo dei suoi amici. Entrò in stazione , la ragazza , mostrando il biglietto timbrato, poco prima che il cielo si aprisse.

Il vagone emanava un olezzo di carbone e benzina.

Egli d'altra parte era così, non che si possa condannarlo. Il sorriso si notava di lui per prima cosa, un sorriso che brillava come Sirio, dai denti leggermente storti ma di una dolcezza che riusciva sempre così naturale da innamorare quasi spontaneamente. La stessa naturale accortezza l'uomo l'aveva nei modi, sempre gentili, pure verso l'essere più spregevole della terra. E così, tanto spontaneamente e genuinamente, Liliana Rinaldi l’aveva amato da dieci mesi a questa parte, e lui l’aveva ugualmente amata. Si crogiolavano in un amore tenero di zucchero ma senza troppe parole. Liliana, dal canto suo, non amava parlare perché parlare implicava lo sforzo di riordinare i pensieri. E, in quella capoccia lì, di pensieri ne aveva troppi e di ogni forma, così che parlarne era ogni volta come scalare una montagna. Era ragazza di monosillabi e invece Marco di grandi feste, di grandi compagnie così che la vita sembrava essergli costantemente un dono. La ragazza si chiedeva spesso se quell’uomo Dio l’avesse creato capace di soffrire perché in quella felicità stupida di cui costantemente viveva non si scorgeva mai neppure un’ombra. Gli attacchi terroristici non sembravano incutergli timore: aveva scosso la testa con quei suoi ricci scuri, aveva sorriso socchiudendo gli occhi e aveva detto solo, senza alcuna agitazione “Alla fine le cose andranno bene.”

Le cose dovevano andare bene secondo chissà quale concezione del mondo che spontaneamente ritrova alle cose un posto felice. Invece Liliana, nelle favole, non ci aveva mai creduto. Soppesava la vita con uno sguardo cupo, ferocemente arrabbiato: quelle pupille scure coglievano con gravità tutte le cose che a Marco fatalmente sfuggivano, ossia la morte, la brevità e l’incertezza del tutto.

Era rispetto a lui dieci anni più piccola ma, non fosse stato per quelle spalle piccole e le rotondità infantili del viso che sembravano non voler smorzarsi mai, nessuno tra voi lettori avrebbe mai saputo indovinarlo. Era capace di consumarsi sul pensiero della morte nottate intere, come se la soluzione a quel problema che da sempre piega l’umanità non fosse più rimandabile e dovesse esser trovata da lei nel giro di qualche ora. La morte, si diceva, annullava la vita e tutte le cose vitali, così che spesso si chiedeva l’utilità di quel respirare e tratteneva il respiro fino a farsi gonfiare le guance.

Pure ora, nel vagone del treno, con Marco lontano, Liliana Rinaldi si torturava le mani nel pensare alla morte. Il mezzo era quasi vuoto se non per un uomo seduto poco distante, un cappello di stoffa calato sugli occhi. Pareva avere la bocca sottile contratta, gli angoli tesi all’ingiù ed era tanto brutto che pareva ghignasse. Aveva avuto l’impressione che l’avesse seguita da un pezzo ma non poteva giurarlo; Come a dissipare i suoi sospetti, lo sconosciuto scese alla fermata dopo.

Emilio Galdani, sceso dal treno, si sistemò bene il cappello sugli occhi, cercò di non pensare ad Anna. Andava a trovare la madre: lo faceva dopo molto tempo solo perché non voleva rimanere solo nel suo appartamento.



 

Marco Vitali, in piedi nel mezzo del salone , sorrideva come uno scemo. La dama a cui rivolgeva il sorriso, quel sorriso che tanto Liliana amava, si era presentata poco prima e, se la memoria non lo ingannava, doveva chiamarsi Valentina. Il collo sottile le era lasciato scoperto dai capelli castani raccolti da un’acconciatura improbabile proprio sul capo. Aveva un viso magro e spigoloso ma l’andatura elegante da donna, aveva il parlare e la spigliatezza della vita adulta. Era questo che inconsciamente a Marco Vitali sembrava mancare, questo lo spingeva a corteggiare velatamente quella donna mediocre. Le porse la mano, la invitò a salire in terrazza: Roma di notte era sempre una romanticheria dal colpo sicuro.

Vi chiedo, lettori, di non giudicarlo, questo nostro uomo sempre felice. Semplice nel pensiero e lineare, per lui si sarebbe detto tradimento la sola concessione fisica. Tutto quanto viene prima, dai sospiri alle parole, dalla malizia dei gesti e ai pensieri sconvenienti, era giustificato da lui meschinamente appellandosi alla sua natura di uomo e di maschio. “Sono uomo “ diceva “e questa è la mia natura, che è pure la natura di tutti gli uomini.”

Salivano quindi spalla a spalla le scale della casa, e la donna ridacchiava portandosi una mano dalle unghie dipinte sulle labbra.

“E’ arrivata Anna Pavlop!” schiamazzò affacciandosi dal corrimano e facendo un ampio gesto di saluto.

“Chi è?” le chiese lui, procedendo.

“Un’amica. Ma per salutarla avrò tempo.” aggiunse Valentina rapidamente , stringendosi al braccio di Marco Vitali.

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